lunedì 7 novembre 2011

Chirurgia B, secondo piano

Entro con l'incedere di un visitatore, anche se so che di lì a poco sarò sdraiata come tutti gli ospiti che, obtorto collo, più o meno sofferenti, popolano le stanze che si affacciano sulla corsia.
In men che non si dica, l'abbigliamento indossato mi spoglia della veste di occasionale spettatore e mi cala nel nuovo contesto.
Ancora incredula di dover davvero affrontare il mio destino imminente, mi siedo sulle bianche lenzuola e attendo impaziente che mi vengano a prendere.
La mia vicina viene rapita da una barella verde, spinta da una donna vestita di verde che mi annuncia che prima del suo ritorno sarò portata via anch'io. 
Divento verde anch'io nel concretizzarsi della prospettiva.
In realtà la mia compagna torna nel volgere di un paio di interminabili ore, ma mi dicono che per un improvviso ed inatteso cambio di programma devo ancora attendere e così, per sfuggire all'ansia, mi abbandono ad un torpore tutt'altro che confortante, con l'orecchio costantemente teso a percepire lo scorrere sul linoleum delle quattro rotelle della lettiga a me destinata.
Eccola di nuovo, arriva sempre tutta vestita di verde, mi consegna il camice, le babbucce e la cuffietta e mi dice di agghindarmi per la sala operatoria.
Con sguardo ammiccante mi suggerisce come salire sulla barella senza ribaltarmi e con mano premurosa mi accarezza la testa quando mi sdraio, mi incoraggia e mi chiede se ho freddo e mi copre con il lenzuolo.
Saluto mia madre e in posizione orizzontale e senza avere una visione nitida degli ambienti che attraverso, percorro il reparto, mi infilo in un ascensore e mi ritrovo nell'anticamera della sala operatoria. Tento di intavolare un discorso con il mio Caronte, ma non so neppure io di cosa in effetti si possa parlare.
Il mio angelo vestito di verde mi racconta di sua figlia, è incredula che io possa avere addirittura qualche anno più di lei, sembro così giovane!, e mi chiede come mi senta e mi rassicura, poi resto da sola una manciata di minuti, che non saprei quantificare esattamente.
Nel tentativo goffo di decifrare senza occhiali i contorni degli oggetti strani riposti negli armadi di quell'anticamera, all'insopprimibile ed innata istanza di dare un nome alle cose che vedo si sovrappone l'ossessivo avvicendarsi dei mille pensieri, fino ad allora tenuti a bada, che hanno dato corpo agli interrogativi di tutta la mia vita e che alimentano le incognite anche di questa esperienza.
Conservo immagini annacquate di quegli istanti, il timore accresciuto anche dall'interminabile attesa confonde la percezione sfuocata della realtà, di cui però trattengo nitidamente il ricordo dell'intensità delle tinte.
Una porta azzurra si apre, qualcuno vestito di verde si avvicina a me, legge la mia cartella clinica, che appoggiata sulle mie gambe, sopra il lenzuolo, mi sembra pesante come un macigno, ritorna dentro, preannunciandomi l'imminente apertura delle danze.
Arriva il mio turno, entro nella sala, dalla barella mi spostano su un altro lettino, mi legano le gambe, mi attaccano gli elettrodi per il monitoraggio cardiaco, mi legano il braccio destro ad un tavolinetto e mi spiegano che un po' di tubicini dovranno fare il loro ingresso nelle mie vene.
Lo strumentista mi chiede come mi chiamo e che lavoro faccio, l'anestesista si presenta, mi dicono di non aver mai praticato l'anestesia ad un avvocato, qualcuno dice ironicamente che gli trema la mano al pensiero, a me comincia a tremare tutto, ma cerco di dissimulare abilmente per non trasmettere loro la mia ansia.
Mi inseriscono quello che definiscono un grosso ago che mi avrebbe dovuto fare male, ma non percepisco nulla, ringrazio e sento che mi dicono che ci siamo e poco a poco, nel giro davvero di pochi istanti, sento affiorare una sensazione di incapacità di reagire agli stimoli e sprofondo immediatamente in un sognante oblio.

Non ricordo esattamente cosa, ma sono certa di aver sognato. Quando mi hanno richiamato alla realtà ho provato quasi un guizzo di rincrescimento, la mia attività onirica era stata disturbata sul più bello e, considerate le ore successive, decisamente meglio sarebbe stato potersi crogiolare nel torpore.

Sento chiamare il mio nome, da emotiva quale sono, raccolgo tutte le mie forze per dimostrarmi reattiva e pronta ad abbandonare il sonno (chimico) e reagisco, rispondo, apro gli occhi, vedo gente attorno a me, una luce intensa, e tutto verde intorno. Mi stupisco di non avere nausea, mi avevano detto che sarebbe stato normale.
In un baleno, esternata la reazione che tutti si aspettavano, il risveglio, ecco salire precisi e profondi gli spasmi del dolore.
Per un attimo ho il lucido ottimismo di dire a me stessa che poteva andare peggio, perchè quel tipo di dolore, anche se in dose decisamente meno intensa, lo conoscevo già, ma nello stesso tempo non riesco a fare a meno di realizzare che non mi figuravo nemmeno lontanamente che la fase post operatoria potesse essere così.
Mi immaginavo inebetita, presa a lottare con i postumi dell'anestesia, in fase più incosciente che vigile e invece mi sento sì un po' ottenebrata e legata nei movimenti, ma perfettamente cosciente e inequivocabilmente in grado di percepire il dolore.
Altro giro turistico per la corsia e per l'ascensore, arrivo in camera, mi dicono che devo collaborare a trasferirmi dalla barella al letto, collaboro anche se non so come.
Noto con piacere che la parte operata è già vestita, mi chiedono se voglio la canottiera sotto il pigiama, annuisco e, una volta sdraiata nel letto comincio a rabbrividire.
Apro gli occhi sulla mia testa pende una boccia di vetro, seguo il tubicino, lo vedo entrare nel mio braccio.
Si avvicinano i miei, tengo gli occhi chiusi, mio padre mi chiama come mi soprannominava da piccola, percepisco chiaramente il loro calore e la vicinanza, mi sforzo di sorridere, ma temo che mi esca soltanto una smorfia, trovo la forza di dire che ho freddo, mi recuperano una coperta supplementare e mia madre mi infila provvidenzialmente i calzini sui piedi assiderati.
Passano i minuti, perdo la percezione del tempo, ma fuori avverto che si sta facendo buio, dico a mia mamma che ho tanto dolore, trovo il coraggio di chiedere un antidolorifico, andando con la mente al contenuto del foglio che mi avevano consegnato al momento del ricovero ("il trattamento del dolore post-operatorio"), nel quale ricordo che era raccomandato ai pazienti di segnalare la presenza del dolore e di specificarne l'intensità, assegnando un valore compreso tra 1 e 10 in un'ipotetica scala.
Arriva un'infermiera, non mi chiede nulla circa il collocamento del mio dolore sull'ipotetica scala, dice solo che per somministrare un antidolorifico serve il parere dell'anestesista, mi spiega che è ancora in sala operatoria, mi chiede di aspettare che si liberi.
Stringo i denti, comprendo di non avere alternative.
Dopo un'attesa che percepisco come interminabile, sento una voce maschile che si presenta, mi dice di essere l'anestesista di turno, mi dice che non possono darmi nulla, perchè mi sono già stati somministrati antidolorifici durante l'intervento e un ulteriore dose costituirebbe un eccessivo sovraccarico per i reni e per il fegato. Mi dice di attendere fiduciosa che si saturino i centri di ricezione del dolore; annuisco, non ho la forza per fare altre domande, fingo a me stessa di credergli e di essere convinta che i centri di ricezione del dolore si possano saturare e mi interrogo sulla nozione labile e dannatamente soggettiva del trascorrere del tempo.
Mi dice desolato che la prossima volta che mi dovessi sottoporre ad intervento chirurgico è meglio che specifichi che mi diano la morfina e che allo stato posso solo aspirare ad una sacca di tachipirina in vena, se lo desidero; annuisco ancora una volta e spero che sia una tanica.
Apro gli occhi, ora sulla mia testa pende una boccia di vetro e una sacca di plastica trasparente, i tubicini che entrano nel braccio sono due.
Credevo che le flebo fossero fastidiose, giuro a me stessa che non mi lamenterò mai più per un ago, tanto più che ancora una volta le mie vene hanno ricevuto i complimenti per la loro facile individuabilità e per la resistenza alle ripetute sforacchiature.
Vengono più volte a misurare la pressione, percepisco un dato non confortante per la mia esperienza di ipotesa cronica, qualcuno che dice che va bene, non ho la forza per pormi il problema, penso alla mia pancia e mi incupisco sui miei spasmi.
Il dolore non accenna a diminuire, continua a pulsare, arriva la sera, le luci si accendono lungo la corsia ed anche in camera.
Arriva qualcuno a chiedermi se l'indomani intendo fare la Comunione quando passa il Sacerdote, annuisco ancora una volta e non posso fare a meno di chiedermi come avrò passato la notte.
Mia mamma continua a vegliare su di me, si è allontanata soltanto un momento, lasciandomi con un amico di famiglia, una sorta di zio acquisito che è venuto a trovarmi e che si è seduto accanto a me con pazienza e premura.
Passano a somministrarci la puntura anticoagulante, porgo l'altro braccio, approfittano per misurarmi di nuovo la pressione e la percentuale di ossigeno nel sangue, poi mostro l'orecchio per la rilevazione della temperatura con l'apparecchio digitale. 
Ritorna anche mio padre, saranno le 8 di sera e comincio ad avere un maggior dominio sul mio corpo, mi sento in grado di parlare e di sostenere una conversazione che contempli anche parole diverse da sì e no.
Sento che i famosi recettori del dolore forse si stanno cominciando a saturare, ma aspetto a parlare per scaramanzia.
Dopo un po' mi azzardo a riferirlo ai presenti, dico sottovoce che forse il dolore comincia a diventare sopportabile.
Rincuorati dall'annuncio, i miei decidono di andare a mangiare qualcosa e mi assicurano che torneranno subito dopo per avere conferma dell'effettiva diminuzione del dolore.
Riesco ad accendere il telefono, trovo un paio di chiamate perse, richiamo un'amica che mi aveva cercato, le racconto sommariamente l'avventura, sperando nel sonno ristoratore.
Rinvigorita dalla diminuzione del dolore, mi interesso della salute di Lucia, la mia vicina di letto, chiacchieriamo un po'. A lei hanno somministrato morfina durante l'intervento, è molto più vispa di me.
Un'ora dopo tornano i miei, si accorgono di una anomalia al catetere, avvisano preoccupati che la mia funzionalità renale possa essere in difficoltà.
Arriva l'infermiera, si scopre che il tubicino è piegato, ripristina il corretto allineamento e per sicurezza mi fa un'ecografia alla vescica per controllare che sia tutto a posto.
Confortata dal fatto che il dolore è diventato sopportabile, sarei stata disposta a concentrarmi su eventuali complicazioni renali (naturalmente transitorie), purchè il dolore fosse scongiurato.
Congedo i miei e prego perchè la notte voli.

La notte vola, più o meno, sia per me sia per Lucia, tra un cambio di boccia e l'altro, una misurazione della temperatura e un'ispezione alla sacca del catetere.
Nell'esperienza del dolore, la riscoperta della solidarietà e della compassione, verso gli altri ma anche verso se stessi.