mercoledì 21 ottobre 2009

La prigione

Stamattina ho incontrato una donna.
Un incidente stradale l'ha privata anni addietro della capacità di camminare normalmente.
Era ancora giovane quando accadde, ma suo marito non l'ha mai lasciata, nonostante tutto.
Nonostante le difficoltà e nonostante le rinunce.
Probabilmente l'avrebbe sposata anche se l'incidente fosse capitato prima che si sposassero.

La vita e gli eventi, tuttavia, non l'hanno affatto incattivita.
Ogni volta che la vedo, benchè litighi costantemente con la lentezza delle sue stampelle, ha sempre pronto un sorriso da regalare ed un'innata capacità di dire qualcosa che, anche se apparentemente buttato là quasi per caso o tanto per dire, stilla speranza e ottimismo per tutti.

E così oggi mi ha raccontato che ha fatto un viaggio con il marito per il loro anniversario di matrimonio e che durante questa piacevole circostanza è purtroppo caduta ben 3 volte.

Come Gesù. E come Lui, si è anche rialzata. E si è ripresa la sua croce.
Con determinazione, con coraggio.

Ma la cosa più grande è che lei non ha raccontato di questi 3 episodi lamentandosene o per lamentarsi ed ottenere commiserazione, ma concludendo la triste elencazione con un moto di speranza ispirata.
Ha solo detto che sperava che il Signore le avesse mandato queste prove tutte in una volta, così per un po' di tempo sarebbe stata libera.

Questa donna, io credo, è davvero eccezionale.
Non è eccezionale subire le conseguenze del caso, in questa fattispecie, di un incidente, anche se è una cosa che non capita a tutti.
Lo è piuttosto la serafica accettazione del destino che lei dimostra.

E ciò nonostante il destino non sia stato generoso con lei.
Il destino l'ha voluta prigioniera del suo corpo.
Poteva portarsela via, oppure immobilizzarla per sempre, deturparle i tratti del volto, le ha reso le gambe un peso più che il puntello, ma ha voluto lasciarle il sorriso.
Forse il destino l'ha resa strumento degli altri.
E forse gli altri, che poi siamo tutti noi, non hanno il tempo di accorgersene, per distrazione, per disinteresse, forse finanche per scaramanzia, e sprecano l'occasione.

A volte mi chiedo, nel mio elucubrare, se si possa essere prigionieri anche della mente.
Il corpo può essere una prigione nel momento in cui costituisce un limite a ciò che si vuole fare.
La mente, invece, è una prigione a ciò che si vuole essere.
Persino se si vuole essere se stessi, anzi, soprattutto.

Ci sono dei cortocircuiti imbarazzanti, se vogliamo fare i moderni, gli anglofoni, potremmo dire che certi loop rapiscono e coinvolgono l'anima stessa in una sorta di centrifuga della razionalità, capace di annientarla, ma di rendere iperbolica la forza di quello che Pessoa definiva lo "sdormire".
Io direi "sragionare", ma forse è solo una congettura presuntuosa pretendere che il mio "sragionare" sia il suo "sdormire".

In comune questi due modi di "svivere" hanno di sicuro il dramma di giocare sull'orlo del limite, al punto da non comprendere che cosa sia reale e cosa sia già possesso rispettivamente del sonno o dell'irrazionalità.

In entrambi c'è qualcosa di ossessivo, di ripetitivo, di eraclitiano, forse.
Tutto scorre e, mentre si ripete, non è mai uguale. Diviene.
Non si può tornare due volte nello stesso fiume, perché né l'uomo né le acque del fiume sono gli stessi.
Mentre siamo "Di passaggio" non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume.
E così intanto passa ignaro il vero senso della vita.

[Callimaco - Dicendo; "Addio sole!"
Cleombroto d'Ambracia
da un alto muro
si gettò nell'Ade.
Non gli era capitato alcun male
che fosse degno di morte;
aveva solo letto
uno scritto di Platone:
quello intorno all'anima.]
Nemmeno nei corsi (e ricorsi) storici di vichiana memoria si rinviene la stessa ossessiva ricerca del diverso-uguale. Ne sfugge il senso, e tutto finisce per cadere nella ripetizione, distraendo l'attenzione da ciò che diviene, troppo presi dall'innato ed istintivo anelito del cuore a immedesimarsi e soffrire come l'altro, come nell'altra epoca e la "scienza nuova" finisce con il coincidere con la possibilità oggettiva che il "ricorso" storico sia altamente probabile, benchè non sia una legge universale.

Il ricorso ha luogo quando il dominio della ragione cade nell'astrattezza, quando si ha l'inaridimento del sapere, quando si ha la perdita della memoria del passato.
Se ciò avviene, l'uomo è senza radici e si crede artefice arbitrario della propria storia.
La storia non è una sorta di sviluppo unilineare e progressivo dove non c'è errore o decadenza o male (per questo la storia non giustifica, ma giudica).
Ma se "gli uomini prima sentono senza avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura", come si fa ad escludere che in questo sentire istintivo che diventa percezione ed infine pensiero non ci sia un divenire?

Sento più calzante al mio modo d'essere interpretare i "ricorsi"come un modo rassicurante di interpretare un "corso" di vita che è comunque in divenire.

Il problema, e qui torno alla riflessione da cui sono parita perdendomi in una digressione ben più ampia del sospettato, è l'ossessività della mente e la capacità del pensiero di imprigionare l'essere e forse, quindi, anche l'anima.

E non ce la si può neppure prendere con la crudeltà del destino, perchè noi siamo ciò che pensiamo e il rimprovero può, tutt'al più, convergere sulla qualità della nostra stessa essenza.
Non si può inveire contro il destino perchè ha messo un ostacolo sulla nostra strada, ma casomai perchè ci ha fatto in un certo modo.
E questo stesso elucubrare intorno all'ossessività è sintomo di "non essere".