sabato 3 settembre 2011

Le mani nella sabbia

Lo guardo con occhi trasognati, lo appoggio sul tavolo e ci giro intorno per osservarlo da ogni angolazione, quasi che solo così potessi avere la certezza di rivivere tutto, senza tralasciare nulla; leggo il monito scritto a caratteri neri sulla stoffa viola e mi voglio convincere che basti ripeterlo dentro di me per ottenere l'effetto taumaturgico invocato. Mi sento stregata da quel sacchetto, vorrei aprirlo, guardare dentro e prendere la sabbia tra le mani, affondare le dita e scavare, ma resisto alla tentazione, perchè temo che toccarne anche solo un granello alteri la perfezione dei momenti vissuti anche nel mio ricordo.
Con devozione quasi pagana, contemplo il mio sacchetto e neppure sfioro il laccio, quasi che sfilarne i capi provochi la dispersione di ogni attimo, esponendolo all'oblio.
Lo annuso, cerco di sentire il mare attraverso la stoffa e di risentire con le orecchie le parole sussurrate e gridate, ma anche di ascoltare quelle non dette ma espresse con le mani, lo sguardo e il cuore e di trovare così nuove interpretazioni della vita e nuovi punti di vista sulla realtà.
I granelli di sabbia sono per definizione infiniti, non basterebbe la mia capacità di contare per enumerare ogni sensazione, traboccata dentro alla fine di un percorso in perenne divenire e affiorata grazie a preziosi quanto insperati incontri.
La consistenza del sacco mi fa capire il peso di certi istanti, talmente veri da scavare un solco così profondo da non poter non essere indelebile.
La superficie è dura, se cerco di spingere un dito sulla stoffa a mala pena ne resta un'impronta, così come inscalfibili restano certe esperienze.
Lo colloco con cura in un punto della stanza ben visibile da ogni zona della mia casa: devo poterlo ritrovare ad ogni rigurgito di nostalgia, per sapere che è finito il tempo di spalare le macerie e che è iniziato quello di rimboccarsi le maniche per scavare nuove fondamenta.
La certezza che qualcosa è cambiato non mi spaventa, mi affascina, ma mi lascia sgomenta quando temo di non saper trovare le risorse per il nuovo inizio.
Ho il terrore di vanificare il lavoro di ricerca, che mi è costato sudore e fatica e molto, moltissimo tempo e un dolore incommensurabile e di sprecare l'eccezionalità della scoperta quasi fortuita e improvvisa, sicuramente perfetta nella sua epifania.
Guardo fuori dall'abbaino, questa volta niente luna, il diluvio universale ha appena finito di sfogarsi ed io invoco, ancora una volta, la mia quiete dopo la tempesta.

Ritorno

Dalla cornice dell'abbaino parlo a quello spicchio di luna che, mentre impallidisce il mio volto, illumina anche il mio mare a chilometri di distanza.
Ascolto "Talking to the moon" di Bruno Mars come un canone in crescendo, con la stessa intensità dei miei palpiti, e a ripetizione, ubriacata da questo cortocircuito musicale che segue la concitazione dei miei pensieri in inarrestabile elaborazione e mi domando se anche i miei vicini si stiano chiedendo se sono pazza.
Quella canzone è la colonna sonora perfetta di questa malinconia che non so scacciare, felice in qualche modo di farmi travolgere dai suoi spasmi, che solo vivendo posso percepire come una fase dolorosamente necessaria.
Il tempo si srotola e sfugge, passano i minuti, forse le ore, scorrono i pensieri e le emozioni di queste settimane, la consapevolezza del non ritorno e la certezza che qualcosa è cambiato, il rimpianto per ogni istante vissuto davvero.
Avverto chiara la voglia di ricominciare da questa nuova presa di coscienza, ma non riesco a liberarmi dal nostalgico desiderio di rivivere ogni istante.
Un velo di lacrime avvolge il mio cuore, con potenza inversamente proporzionale a quanto i miei occhi non sappiano piangere e mi chiedo se la commozione sia quella suscitata da un tramonto o da una nuova alba.
Aspetto il sonno come una panacea, ma non mi illudo se dico che sarà solo un placebo.
Che fantastica storia è la vita!