giovedì 1 settembre 2011

Partire

Mi chiedo perchè debba passare la vita a rincorrere sogni e rimpiangere occasioni perse o finite troppo presto.
Ogni partenza per un viaggio, per una meta nota o meno, è accompagnata da un mal di pancia irrazionale, figlio diretto della paura di tutto ciò che è nuovo, e poi, ogni nuova esperienza, prima di sublimarsi nella dolcezza del ricordo, passa ostinatamente peri cocci aguzzi della nostalgia.
Ogni volta è così e ogni volta, nonostante sappia che per me è fisiologico, ci ricasco.
I bagagli mi mettono a disagio, cerco di non guardarli, ci metto dentro tante speranze e tanti ricordi, che solo con il tempo elaboro e comprendo che saranno parte di me per sempre, ma non riesco a perdere la dolorosa abitudine di evitarne il contatto, quasi che dentro di loro si chiudesse una fase della vita per sempre.
In effetti è così, ma se non avessero fine, tutte le esperienze non diventerebbero ricordi e se non si passa per il ricordo non si può dire di aver vissuto.
Non posso non chiedermi perchè le persone che incontro e che diventano davvero importanti per me non possano essere quelle che frequento ogni giorno, tutto l'anno.
Non cedo alla seduzione del principio di autoconservazione e di protezione dai sentimenti, nel bene e nel male, che mi vorrebbe far credere che quelle persone mi colpiscono proprio perchè so che sono destinate a restare meteore nel cielo della mia esistenza: non può essere così, altrimenti non continuerei a sentirle e a cercarle e non continuerebbero a rappresentare incontri importanti della mia vita.
Quando ne provo la certezza, oramai sono abbastanza grande da capire che non mi sbaglio.
Al dolore della valigia e di tutto ciò che rappresenta, si aggiunge quello del distacco; i chilometri mi appaiono insuperabili e non riesco ad accettare la razionale consolazione che il sentimento sopravvive e supera la distanza. In più c'è la lacerazione del tempo: troppe settimane, se non mesi, separano preziosi incontri che la tecnologia, la penna o il suono della voce attraverso un ponte radio non possono compensare.
Ci si abitua al dolore e il tempo lo lenisce, ma non sono capace di affrontare l'immediato: i saluti sono pugnalate, andare per l'ultima volta in un posto nel quale non tornerò per chissà quanto mi distrugge.
Diventano tappe quasi feticistiche, ci metto l'anima ogni volta che mi soffermo per l'ultima volta su uno sguardo o in un luogo, impiegando un tempo insopportabile nel compiere questo doloroso e inevitabile rito.
Come in pellegrinaggio, saluto persone e posti e mi metto al collo una collana fatta di grani diversi e tutti speciali che mi sento in qualche modo cuciti addosso, senza però poterli continuare a toccare, rassicurando le mie dita.
Come posso sopportare i giorni prima della partenza e quelli subito dopo il rientro?
Come posso alterare questo lacerante e inevitabile divenire che fa parte della vita?
Perchè tutto scorre e le mie dita non riescono a trattenere qui ed ora tutta l'essenza di ogni attimo vissuto con l'anima?